In vista del workshop internazionale del 25-26 giugno, vi proponiamo la lettura di un’intervista a David J. Wallin del 2008, pubblicata su Psychotherapy.net.
Intervistato dal dott. Randall C. Wyatt e dal dott. Victor Yalom, David Wallin approfondisce le tematiche dell’Attaccamento, della relazione terapeutica, della self-disclosure e del ruolo della consapevolezza mindfulness nel lavoro con i pazienti.
Vi proponiamo qui sotto la traduzione di un pezzo dell’intervista, riguardante la tematica “La relazione terapeutica e la relazione del paziente”.
Potete leggere l’intervista integrale in inglese QUI.
RW: Randall Wyatt VY: Victor Yalom DW: David Wallin
LA RELAZIONE TERAPEUTICA E LA RELAZIONE DEL PAZIENTE
« RW: Come si traduce la relazione terapeutica nel mondo relazionale proprio del paziente – nelle loro relazioni, nell’amore, nella genitorialità?
DW: Penso che probabilmente ci sono un sacco di modi in cui il livello pratico delle relazioni del paziente migliora attraverso un focus su quello che sta succedendo nella relazione terapeutica. Per prima cosa, stiamo parlando della relazione di una persona con sé stessa oppure delle relazioni di una persona con altre persone, in generale è questo ciò che preoccupa la gente.
È la mia relazione con me stesso: mi sento depresso, divento sempre ansioso. Oppure è la mia relazione con altre persone: mi sento sempre insicuro con gli altri, oppure mi sento solo realmente diffidente e sfiduciato nei loro confronti, oppure sono arrabbiato o deluso da loro, o gli altri sembrano più importanti e intelligenti rispetto a quanto lo sono io, o qualsiasi altra cosa possa essere. Sembra che le persone siano preoccupate riguardo ad aspetti delle loro relazioni con sé stessi o con gli altri.
Se io, come terapeuta, inizio a prestare attenzione a cosa sta succedendo nella relazione con un paziente, si crea una specie di esperienza nel qui-ed-ora degli aspetti problematici delle relazioni del paziente con altre persone, o degli aspetti della relazione del paziente con sé stesso.
RW: Ci può fare un esempio di ciò all’interno del suo lavoro?
DW: Sto pensando ad un uomo che fatica a sentirsi vicino a sua moglie e noto che è qualcosa di distante da me, nonché distante dai suoi sentimenti. Se posso trovare un modo per parlare al paziente del fatto che – per esempio, “Dio, stiamo parlando di questo aspetto davvero problematico e lei sembra del tutto inalterato. Le ho chiesto cosa prova riguardo a questo e lei risponde ‘sto pensando’ oppure ‘sto riflettendo’, ma non lo sta sentendo. Mi chiedo cosa stia accadendo qui. Forse non si sente sicuro nell’esprimere i suoi sentimenti quando è con me o se forse sta avendo delle difficoltà a entrare in connessione con quello che sente in generale.”
E poi più tardi potrei dire qualcosa del tipo, “se non sente nulla di particolare riguardo agli aspetti di cui io ho immaginato avrebbero evocato molte cose, ciò mi lascia una sensazione come di essere disconnesso da lei.”
VY: Cosa succede quando fai questo tipo di dichiarazioni?
DW: Idealmente, penso che il paziente diventi davvero interessato: “Wow. Dio, sembra che io sia emotivamente tagliato fuori dalle esperienze che, almeno a sentire lei, ci si aspetterebbe che mi tocchino molto. Mi chiedo, cosa riguarda tutto ciò?”
VY: E dopo questo primo interesse?
DW: Col passare del tempo, si creano dei ponti tra ciò che accade nella relazione terapeutica e ciò che accade in altre importanti relazioni che il paziente ha; alcuni di questi ponti sono collegati verso il passato. Come il paziente parla della sua esperienza, il terapeuta ha modi di stare con quell’esperienza, tollerando quella esperienza, che permette all’esperienza del paziente di essere approfondita.
RW: Quindi questa è la base sicura che il terapeuta cerca di fornire nella relazione con iI paziente.
DW: Questa ne è una parte, fornire una base sicura. Credo che significhi generare una relazione nella quale il paziente si senta sia abbastanza sicuro, sia abbastanza sfidato, impegnato, compreso e accettato per avventurarsi laddove prima sentiva che era troppo pericoloso andare.
RW: Ho avuto un cliente che, nelle prime sedute, rivelò un sacco di esperienze dolorose riguardo a traumi, all’infanzia e ad abusi nella sua famiglia, e poco dopo, mi disse che quella settimana era solo inorridito, dagli incubi, qualsiasi cosa…
DW: Come se si fosse connesso con la sua esperienza traumatica.
RW: Come se si fosse connesso con l’esperienza traumatica, la quale fu davvero opprimente. Dopodiché scrisse una canzone riguardo a questo, che inizia così, “Sono nato nell’Inferno vivente” e suonava come se lo fosse. Inizialmente si sentì solo come se volesse scappare dalla terapia: “Questa cosa della terapia è troppo. Hey, ho fatto qualche sessione di terapia e ora sono sopraffatto”. Tuttavia egli fece i conti con ciò ed esplorò la sua vita, cosa che fu per lui estremamente rischiosa, ed io certamente ho cercato di fornirgli uno spazio per questo.
DW: Giusto. Credo che i pazienti devono riuscire a capire, sulla base della loro esperienza con noi, se, in effetti, sono al sicuro. Le nostre risposte permettono al paziente di sentirsi compreso, accettato, oppure no? C’è una sorta di esperienza comune con i pazienti traumatizzati, che si traduce nella loro estrema difficoltà di sentirsi al sicuro, e credo che loro spesso trovino insicurezza in situazioni che noi possiamo immaginare come sicure. Per esempio, essi potrebbero sentire che noi stiamo cercando di sedurli in una relazione con noi, la quale si aspettano, sulla base della loro esperienza, essere un’esperienza effettivamente ed inevitabilmente pericolosa, una relazione pericolosa.
RW: Quindi è un grande rischio che essi si prendono, e serve loro molta sicurezza per affrontarlo – da non sottovalutare.
DW: In base alla mia esperienza con molti pazienti differenti, confrontarsi con il trauma porta sempre invariabilmente a porsi domande sulla sicurezza della relazione con il terapeuta. Spesso questi sono due processi intrecciati: quindi mentre ti stai confrontando con la sicurezza o pericolosità della relazione con il terapeuta, automaticamente emergono questioni sul trauma passato.
Credo che ci sia un modello comune, che ha una certa significatività, che noi creiamo una relazione di una certa sicurezza, che offre un contenitore dentro il quale, ad un certo punto, il paziente si sente abbastanza sicuro per confrontarsi con l’esperienza traumatica passata. Ma credo che il modello acquisti molto più significato se si pensa a questo non come un processo a due fasi ma piuttosto come due facce di un unico processo che si attraversa in continuo, ancora e ancora e ancora.
In altre parole, se prestiamo attenzione, notiamo ripetutamente la preoccupazione del paziente riguardo alla sicurezza e alla pericolosità della relazione con noi da una parte, e si sentono ripetutamente gli echi o i riferimenti espliciti alla storia traumatica del paziente dall’altra parte, e ci si ritrova a toccare con mano una e poi l’altra parte, per un lungo periodo di tempo.»