In questo articolo il dottor Milko Prati analizza ed espone nuove teorie contemporanee sull’inconscio di alcuni importanti autori come: Daniel Stern, Jessica Benjamin, Robert Stolorow, George Atwood e Bernerd Brandchaft. Questi autori nord-amerciani rientrano nella cornice teorica contemporanea della psicoanalisi intersoggettiva.
Spero che questo articolo possa ampliare le conoscenze sull’inconscio e possa avviare riflessioni e paragoni fra differenti modelli teorici, dai più classici ai più contemporanei e di differenti orientamenti.
Ringrazio l’autore che con le sue fresche parole ci tiene aggiornati e ci spinge a riflettere.
L’inconscio nella prospettiva intersoggettiva
di Milko Prati
Introduzione
A partire dagli anni ’70 del secolo scorso, i modelli psicoanalitici evidenziano la necessità di considerare il comportamento dell’uomo da una prospettiva differente, più ampia, non più come se fosse un sistema chiuso, rappresentato da una teoria della mente che mette in relazione solo forze interne. Il comportamento umano viene considerato in relazione ad un contesto intersoggettivo, in cui si presenta sempre più l’esigenza di formulare delle teorie che possano trovare possibili collegamenti tra i meccanismi intrapsichici e i fenomeni interattivi.
“L’unità di base dello studio non è l’individuo come entità separata, i cui desideri si scontrano con una realtà esterna, ma un campo interattivo, all’interno del quale l’individuo ha origine, sforzandosi di entrare in contatto con se stesso e di articolare la propria personalità…la mente è composta da configurazioni relazionali” (Mitchell, 1988).
Le ricerche di quegli anni criticano il modello freudiano dello sviluppo mettendo in discussione non solo il parallelismo tra la crescita corporea e la rappresentazione mentale, ma soprattutto l’idea che lo sviluppo psichico sia dettato dalle vicende della linearità dello sviluppo corporeo, per cui l’adolescenza rappresenti il termine sia dello sviluppo fisico sia di quello mentale.
Inoltre, negli stessi anni, è presente una rivalutazione della fenomenologia degli affetti che porterà Bolwlby (1969) a formulare la teoria dell’attaccamento, in cui sarà centrale il concetto di modello operativo interno, concepito come un sistema motivazionale che regola il comportamento e che permette al bambino di formarsi delle aspettative e valutare le conseguenze.
Nelle ricerche viene posta particolare attenzione alla compartecipazione degli affetti, la cui comprensione è arricchita dal concetto di sintonizzazione sul piano della regolazione reciproca. In questa prospettiva l’affettività non può più essere considerata come il prodotto di un meccanismo intrapsichico isolato, ma come una proprietà del sistema mutualmente autoregolativo bambino-caregiver.
Tale tendenza a comprendere i fenomeni intrapsichici attraverso sistemi interattivi più ampi è testimoniata inoltre dall’utilizzo di nuove specifiche terminologie, come ad esempio relazione Sé-oggetto-Sé (Kohut), matrice relazionale (Mitchell), strutture di influenza reciproca (Beebe e Lachmann), intersoggettività (Benjamin, Stern, Stolorow).
Il crescente riconoscimento del contesto intersoggettivo dell’esperienza intrapsichica lo si riscontra soprattutto nella psicologia psicoanalitica dello sviluppo, profondamente influenzata dalle scoperte e dai concetti espressi dall’infant research. Tuttavia, il termine intersoggettività non è stato utilizzato dagli psicoanalisti in maniera univoca, infatti, un diverso significato è stato attribuito a tale termine, da una parte dall’infant research e dalla corrente femminista della psicoanalisi americana e, dall’altra, dalla prospettiva intersoggettiva teorizzata da Stolorow e collaboratori.
In generale, Stern ha introdotto il concetto di intersoggettività per indicare il bisogno del bambino di riconoscere la madre come soggetto separato e non solo come un oggetto separato, Benjamin pur condividendo questa posizione ha voluto sottolineare l’importanza del riconoscimento reciproco a fondamento del campo intersoggettivo, mentre Stolorow rintraccia l’origine di tale termine nella tradizione della psicologia della personalità giungendo a delineare una teoria dell’intersoggettività.
Con la presente relazione si vuole evidenziare dapprima il significato che il termine intersoggettività assume nel pensiero di Daniel Stern, di Jessica Benjamin e di Robert Stolorow, e successivamente, partendo dal presupposto che per Stolorow e colleghi l’intersoggettività rappresenta un orientamento metodologico ed epistemologico generale, mostrare come l’applicazione della prospettiva intersoggettiva al processo psichico inconscio porti a distinguere tre forme di inconscio.
Daniel Stern
Il modello teorico elaborato da Daniel Stern si colloca all’interno del paradigma scientifico dell’infant research, un’area di ricerca al confine tra la psicoanalisi e la psicologia evolutiva.
Stern (1985) elabora una critica metodologica alla costruzione delle concezioni psicoanalitiche dello sviluppo e capovolge l’evoluzione dell’esperienza del Sé e dell’altro, che la psicoanalisi aveva considerato una conquista dello sviluppo a partire da uno stato iniziale di indifferenziazione. In particolare, il riferimento è al modello di
M. Mahler (1975) secondo cui il bambino nei primi mesi di vita sperimenterebbe una fase autistica normale, caratterizzata dall’assenza di rapporti con il mondo esterno ad eccezione dei momenti in cui vi è la regolazione degli stati fisiologici primari. Stern propone invece un modello che prevede la precoce capacità del bambino di sperimentare l’emergere di un’organizzazione del Sé fin dai primi mesi di vita e, pertanto, un’iniziale capacità di differenziazione tra il Sé e l’altro. Ciò che emerge dalle ricerche è che il bambino è attivamente impegnato nella ricerca di stimoli ed è in grado di regolare, con il contributo della madre, l’eccesso o la carenza degli stessi per raggiungere livelli ottimali di stimolazione. Il senso del Sé viene visto come un’esperienza soggettiva organizzante.
Queste evidenze richiedono pertanto un cambio di prospettiva in cui il vero oggetto di studio è il sistema dinamico di relazione madre-bambino. Nei primi mesi di vita il bambino si rapporterebbe attivamente alla realtà ricavando, dalle precoci e isolate stimolazioni sensoriali che riceve, un senso di Sé emergente che andrebbe a strutturarsi e consolidarsi negli anni successivi all’interno della relazione con la madre.
Tutto ciò che contribuisce a formare la relazione tra madre e bambino (il tono della voce, le espressioni del viso o i movimenti corporei), ripetendosi con coerenza nel tempo, concorre alla costruzione di modalità interattive stabili, coerenti e ricorrenti che il bambino impara a riconoscere e su cui inizia a strutturare un modello di relazione di Sé con l’altro, che contribuisce a formare le sue aspettative e un emergente senso di identità. All’interno del sistema intersoggettivo il bambino acquisisce una propria capacità di regolazione del Sé e forma le basi della propria personalità.
Il percorso di sviluppo è, quindi, sorretto e strutturato da un principio organizzatore fondamentale, il concetto di “essere con” o “stare con”; mentre il bambino fa esperienza delle diverse modalità di “essere con”, di entrare in relazione con gli altri, viene a formarsi quella struttura mentale che è alla base di tutto il processo di costituzione dell’identità, ossia il Senso del Sé.
Il senso del Sé è ciò che dà coerenza e continuità all’esperienza dell’individuo, integrando al tempo stesso percezioni e affetti, sistemi motivazionali e rappresentazioni. Si tratta pertanto di princìpi organizzatori dell’esperienza che emergono in coincidenza con le conquiste evolutive dei primi tre anni di vita permettendone una riorganizzazione complessa e significativa.
Il bambino sperimenta diversi sensi del Sé relativamente distinti: emergente, nucleare, soggettivo, verbale e narrativo. Ognuno dei sensi del Sé emerge con l’acquisizione di competenze derivate dai cambiamenti dello sviluppo infantile precoce. Stern sottolinea che non si tratta di stadi o fasi che si susseguono secondo una prospettiva sequenziale e che vengono inglobati nell’organizzazione successiva, piuttosto i sensi del Sé, pur emergendo in momenti successivi, operano contemporaneamente per tutto il resto della vita e rappresentano forme diverse e specifiche di fare esperienza di Sé e delle relazioni interpersonali.
L’attenzione alla modalità intersoggettiva di essere in relazione implica che la natura dell’essere in relazione comprende il riconoscimento degli stati mentali soggettivi nell’altro e in se stessi. Tra il settimo e il nono mese il bambino fa “una scoperta di grande rilievo, vale a dire che può condividere con un altro uno stato mentale come l’intenzione. In altre parole il bambino piccolo sviluppa una teoria delle menti interfacciabili. Questo ha parecchie implicazioni: il bambino ha la capacità di imputare all’altro stati mentali interni; ha una qualche appercezione quando ha un particolare stato mentale interno; e che l’interfaccia – nel senso di condividere o manifestare reciprocamente questi due stati – non solo è possibile ma è anche un obiettivo a cui tendere” (Stern, 1983).
Inoltre, nel processo di regolazione affettiva, è posta grande attenzione al comportamento materno; tale meccanismo regolativo avviene all’interno del sistema intersoggettivo, in cui si manifesta anche la capacità materna di andare oltre la semplice imitazione del comportamento infantile e di sintonizzarsi condividendo lo stato emotivo del bambino. La sintonizzazione affettiva è una “…forma particolare di comportamento in risposta al comportamento affettivo-comunicativo dell’altro…la sintonizzazione è un’imitazione interiore dell’esperienza vissuta (presumibilmente) dall’altro, non del modo in cui questa si manifesta nelle azioni” (Stern, 2004).
Nell’interazione le due menti creano intersoggettività e l’intersoggettività modella le due menti; “la nostra vita mentale è frutto di co-creazione, di un dialogo continuo con le menti degli altri, che costituisce la matrice intersoggettiva”. Per Stern l’intersoggettività fa riferimento a una capacità che si raggiunge durante lo sviluppo, per cui si riconosce un’altra persona come centro separato di esperienza soggettiva e con la quale si possono condividere stati soggettivi.
Jessica Benjamin
Esponente di rilievo della corrente femminista della psicoanalisi americana, Jessica Benjamin nel suo lavoro sull’intersoggettività pone l’accento sul riconoscimento reciproco come aspetto intrinseco dello sviluppo del Sé.
Per la Benjamin (1992) l’intersoggettività “fa riferimento a quella zona dell’esperienza o della teoria in cui l’altro non è semplicemente l’oggetto di bisogni/pulsioni o cognizioni/percezioni dell’Io ma ha un centro del Sé separato ed equivalente”.
L’autrice non si limita a definire l’intersoggettività come un campo di interazione tra due soggetti ma, riprendendo la filosofia hegeliana, aggiunge al campo intersoggettivo il concetto di riconoscimento reciproco[1], inteso come vedere l’altro come soggetto con un centro equivalente di esperienze. Il processo di riconoscimento si compie quando il soggetto e l’Altro concepiscono se stessi in quanto riflessi l’uno dell’altro; tale riflesso però non si risolve nell’annullamento dell’uno nell’Altro o in una proiezione che annulla il loro differenziarsi (Benjamin, 2006).
Seguendo la dialettica hegeliana, la Benjamin ritiene che il riconoscimento contiene in sé l’aspetto dell’autoaffermazione di una soggettività che deve essere riconosciuta. Il momento della negazione risulta decisivo per l’accettazione della differenza e dell’alterità (l’altro diverso è una minaccia per l’identità del Sé), mentre la relazione intersoggettiva mantiene il momento negativo insieme alla possibilità del riconoscimento.
Contrapponendosi al processo di separazione-individuazione e al concetto di costanza dell’oggetto teorizzati da M. Mahler (1975), la Benjamin sostiene che la madre ha pieno diritto di essere riconosciuta come un soggetto e non come un mero oggetto delle pulsioni del bambino, come colei che soddisfa i bisogni del bambino, infatti, secondo la sua linea di pensiero, il processo evolutivo del bambino deve portare al riconoscimento della madre come “altra” rispetto a sé, con il suo mondo interno, con le sue esperienze, dotata di un proprio centro di iniziativa e agente del proprio destino.
A differenza di Stern e altri autori dell’infant research, che evidenziano la capacità dei bambini molto piccoli di riconoscere la separatezza (non c’è fusione, simbiosi o uno stato autistico), la Benjamin sottolinea che vedere la madre come separata è diverso dal vederla come un soggetto. Separatezza e riconoscimento reciproco sono due elementi in continua tensione dialettica che si dispiegano e definiscono il campo intersoggettivo, così mentre il riconoscimento della madre porta a sviluppare l’agency del bambino, l’intersoggettività è un’acquisizione evolutiva facilitata anche dalla crisi di riavvicinamento.
Mentre la Mahler attraverso il concetto di interiorizzazione che conduce alla costanza dell’oggetto ha risolto sia la lotta per l’indipendenza (consolidamento del senso di individualità) sia la risoluzione della crisi (maggior senso di vulnerabilità, durante la fase di riavvicinamento, a causa di una maggiore consapevolezza della separatezza del bambino dalla madre), la Benjamin, da una prospettiva intersoggettiva, vede la crisi come una lotta tra l’affermazione del Sé e il riconoscimento dell’altro, la cui risoluzione è il riconoscimento reciproco (la madre ha i suoi obiettivi e il bambino può avere i propri) e la gioia della condivisione.
Le persone arrivano a riconoscere gli altri come soggetti attraverso la continua tensione tra il mettersi in relazione con gli altri come oggetti (intrapsichico) e il mettersi in relazione con gli altri come soggetti separati (intersoggettivo). In considerazione di ciò, la Benjamin considera l’intersoggettività come una traiettoria evolutiva in cui il riconoscimento dell’altro permane in modo incostante; rappresenta un processo dialettico in cui i soggetti si riconoscono come centri separati di esperienza soggettiva, ma allo stesso tempo, negano continuamente l’altro come un soggetto separato, vi è quindi una negazione del riconoscimento reciproco.
Robert D. Stolorow, George E. Atwood, Bernard Brandchaft
Robert Stolorow rivendica un uso indipendente e originale del termine intersoggettività, sottolineando che per quanto tale termine fosse già stato utilizzato dagli psicologi dello sviluppo, egli non ne fosse a conoscenza quando iniziò con Atwood ad attribuirgli un significato particolare all’interno della teoria che si stava delineando, inizialmente definita “fenomenologia psicoanalitica”.
L’interesse di Robert Stolorow per la soggettività nasce durante il periodo di dottorato in psicologia clinica presso l’università di Harvard, dal 1965 al 1970, in cui era attivo l’insegnamento di psicologia della personalità, conosciuto anche come “personologia”, un movimento psicologico che si fonda sull’idea che la conoscenza della personalità umana può derivare solo da uno studio della persona nella sua individualità.
Successivamente Stolorow, trasferitosi a Rutgers, inizia una proficua collaborazione con Atwood che porta nel 1976 a completare il libro Faces in a Cloud. In questo scritto gli autori, oltre a dimostrare quanto lo sviluppo del pensiero e delle teorie psicoanalitiche siano intimamente collegate alla storia personale del loro creatore, esprimono l’esigenza di delineare una teoria della soggettività stessa che, depurata dalle reificazioni meccanicistiche della metapsicologia freudiana, renda possibile la spiegazione non solo dei fenomeni psicologici descritti dalle teorie, ma anche le teorie stesse. In Faces in a Cloud gli autori non introducono il concetto di intersoggettività, anche se è implicito nella dimostrazione di come il mondo soggettivo personale di un teorico della personalità influenzi la comprensione delle esperienze di un’altra persona.
Il primo uso esplicito del termine “intersoggettivo” compare nell’articolo “The Representational World in Psychoanalytic Therapy” (1978), in cui i due autori in un paragrafo dal titolo “Transference and Countertransference: An Intersubjective Persepective” concettualizzano l’intergioco tra il transfert e il controtransfert come un processo intersoggettivo, processo che riflette l’interazione tra due mondi soggettivi, diversamente organizzati, del paziente e dell’analista e che il mancato riconoscimento delle corrispondenze e delle disparità tra i mondi soggettivi della diade influenza il processo terapeutico.
Stolorow desidera inoltre sottolineare che la struttura teorica dell’intersoggettività, sebbene in forma abbozzata, era già delineata l’anno precedente la pubblicazione del libro “La guarigione del Sé” di Kohut (1977), pertanto ritiene che non si possa affermare che essa derivi dalla Psicologia del Sé, anche se quest’ultima avrebbe contribuito a delinearne la struttura. La richiesta di recensire “La guarigione del Sé” è l’occasione per Stolorow per evidenziare gli aspetti che egli considera rivoluzionari della teoria di Kohut, in particolare l’allontanamento dalle restrizioni della metapsicologia classica e il cambiamento dal primato motivazionale della pulsione al primato motivazionale dell’esperienza di Sé, mostrando come questi aspetti si adattino perfettamente a quanto era stato anticipato in Faces in a Cloud formulando la teoria della fenomenologia psicoanalitica.
Nel corso degli anni ’80 del secolo scorso, Stolorow, con la collaborazione con Brandchaft, compie diversi studi con l’obiettivo di mettere in evidenza come la nuova prospettiva intersoggettiva sia in grado di chiarire molti problemi clinici (ad esempio le reazioni terapeutiche negative, l’alleanza terapeutica, i conflitti, le resistenze) e giunge alla conclusione che il campo intersoggettivo ha un ruolo determinante nella formazione di psicopatologie e che, pertanto, i fenomeni clinici non possono essere più compresi indipendentemente dal campo intersoggettivo in cui essi si costituiscono.
Per quanto concerne il termine “intersoggettività”, è possibile evidenziare alcune differenze rispetto a quanto emerso nel lavoro di Stern e della Benjamin. Nella prospettiva di Stolorow e collaboratori tale termine non presuppone mai il raggiungimento del pensiero simbolico o il concetto di se stessi come soggetti o un modo di essere in relazione tra soggetti nel senso indicato da Stern, ma indica “qualsiasi campo psicologico formato da mondi esperienziali interagenti, quale che sia il livello evolutivo che caratterizza l’organizzazione di tali mondi” (Stolorow, Atwood, 1992). A differenza di Stern e della Benjamin, essi ritengono che il termine intersoggettivo possa essere applicato ogni volta che due soggettività costituiscono un campo, anche se l’una non riconosce l’altra come soggettività separata.
Stolorow e collaboratori elaborano una teoria dell’Intersoggettività. Essi definiscono l’intersoggettività come una teoria di campo o sistemica in cui i fenomeni psicologici si formano nell’incontro di soggettività in interazione. I fenomeni psicologici “non possono essere compresi facendo astrazione dai contesti intersoggettivi in cui prendono forma” (Atwood, Stolorow, 1984) e quindi non sono il prodotto di meccanismi intrapsichici isolati.
La teoria dell’intersoggettività, concepita come teoria di campo in cui l’organizzazione dell’esperienza personale è concepita nell’ambito di un sistema intersoggettivo contingente, differisce da altre teorie psicoanalitiche in quanto non postula costrutti psicologici considerati universalmente importanti nello sviluppo e nella patogenesi, come per esempio il complesso di Edipo, le posizioni paranoidi e depressive, i conflitti di separazione-individuazione.
Il campo di indagine della psicoanalisi è il sistema creato dall’interazione dei mondi soggettivi del paziente e dell’analista, o del bambino e del caregiver e non la mente isolata del soggetto.
Secondo Stolorow e collaboratori l’esperienza personale si sviluppa sempre all’interno di un contesto intersoggettivo in evoluzione, infatti, lo sviluppo psicologico è visto come profondamente influenzato dai contesti intersoggettivi i quali modellano il processo evolutivo, facilitando o ostacolando il superamento da parte del bambino di compiti evolutivi critici. “L’oggetto centrale di osservazione è il campo psicologico in evoluzione costituito dall’interazione delle soggettività diversamente organizzate del bambino e di chi si prende cura di lui” (Atwood, Stolorow 1984).
Molte ricerche e concetti emersi dall’infant research confermano quanto emerso dalle riflessioni di Stolorow, ossia che lo sviluppo dell’organizzazione dell’esperienza del bambino va considerato come una proprietà del sistema di regolazione reciproca madre-bambino.
La psicologia psicoanalitica dello sviluppo ha, pertanto, accolto e sviluppato l’interesse per il contesto intersoggettivo dell’esperienza intrapsichica. È proprio in considerazione di questo cambio di prospettiva che Sander (1985, 1987) mostra come sia il sistema bambino-genitore a regolare e organizzare l’esperienza infantile degli stati interiori determinando lo sviluppo della competenza di autoregolazione; Stern (1985) evidenzia come la formazione dei vari sensi del Sé siano derivati dalle interazioni del bambino con altri che si autoregolano;
Beebe e Lachman (1988a,b) mostrano come modelli ricorrenti di influenza reciproca tra madre e bambino forniscano la base per lo sviluppo del Sé e delle rappresentazioni oggettuali.
Stolorow ritiene che questi autori, anche se con un linguaggio differente, descrivono come i modelli ricorrenti della transazione intersoggettiva nel sistema evolutivo siano determinati da princìpi invarianti che inconsciamente organizzano le esperienze successive del bambino. “Sono questi princìpi di organizzazione inconscia, costituitisi all’interno della matrice del sistema bambino-genitore, che formano i “blocchi” di costruzione essenziale dello sviluppo della personalità” (Stolorow, Atwood, 1989).
Stolorow e collaboratori precisano che per quanto esistano un insieme di princìpi ordinatori individuali sarà sempre il contesto a determinare a quali di questi princìpi si farà ricorso per organizzare l’esperienza. L’esperienza è organizzata da uno specifico principio invariante solo se la situazione si presta a essere organizzata in quel modo. Pertanto, l’organizzazione dell’esperienza è determinata sia da princìpi preesistenti sia dal contesto, che variando favorisce l’uno o l’altro di tali princìpi.
Stolorow e collaboratori sostengono che il contesto intersoggettivo ha un ruolo costitutivo nella formazione di psicopatologie e che i fenomeni clinici non possono essere compresi psicoanaliticamente in modo indipendente dal contesto intersoggettivo in cui essi si realizzano.
Il concetto di campo intersoggettivo si differenzia dal concetto di relazione Sé-oggetto-Sé di Kohut per il fatto che il campo intersoggettivo è un sistema di mutua influenza reciproca (Beebe e Lachman, 1988a,b) e, pertanto, per cogliere questa reciprocità di mutua influenza si dovrebbe parlare di una relazione Sé-oggetto-Sé/oggetto-Sé-Sé. Inoltre, il mondo soggettivo rispetto al Sé è un costrutto più esperienziale; il campo intersoggettivo è più ampio e più completo da quello costituito dalla relazione Sé-oggetto-Sé in quanto si pone ad un livello maggiore di generalizzazione, includendo dimensioni di esperienza diverse dalla dimensione d’oggetto-Sé.
Il campo intersoggettivo permette di comprendere l’esperienza del paziente anche quando quest’ultimo non sta esperendo l’analista come una fonte d’oggetto-Sé, ma come una fonte di stati affettivi dolorosi e conflittuali. Non è sufficiente “identificare e analizzare l’esperienza, da parte del paziente, di una rottura di un legame di transfert d’oggetto-Sé. È fondamentale, inoltre, indagare i princìpi invarianti, che in maniera inconscia, organizzano l’esperienza del paziente durante la rottura transferale d’oggetto-Sé e identificare le qualità o le attività dell’analista, che sono presenti e che possono essere percepite come conferme di quei princìpi” (Stolorow, Atwood, Brandchaft, 1994).
Stolorow ritiene inoltre che gli studi relativi al sistema evolutivo non consentono di conservare un modello della mente dominato dalle energie pulsionali, quanto piuttosto dall’affetto; l’esperienza emotiva soggettiva è qualcosa che dalla nascita in poi è regolato o non regolato all’interno di sistemi relazionali. L’affettività non è un prodotto di meccanismi intrapsichici isolati, ma è una proprietà di mutua regolazione bambino-genitore.
L’esperienza emotiva non è separabile dai contesti intersoggettivi di sintonizzazione o di cattiva sintonizzazione in cui è esperita. Il primato motivazionale dell’affettività porta a riconcettualizzare in chiave intersoggettiva molti fenomeni psicologici che sono al centro dell’indagine psicoanalitica, come ad esempio il conflitto psichico, il trauma, il transfert e la resistenza, l’inconscio e l’azione terapeutica dell’interpretazione psicoanalitica. “La prospettiva dell’intersoggettività è in sostanza un orientamento metodologico ed epistemologico generale che rende necessario una revisione radicale di tutti gli aspetti del pensiero psicoanalitico” (Stolorow e Atwood 1992).
Di seguito si mostra come la prospettiva intersoggettiva di Stolorow e colleghi porti a una revisione della nozione di inconscio, distinguendo tre differenti forme di inconscio interconnesse tra loro.
L’inconscio nella teoria dell’Intersoggettività
Secondo Stolorow e colleghi il processo psichico inconscio deriva da specifici contesti formativi intersoggettivi in cui si possono distinguere tre forme interconnesse di inconscio: l’inconscio preriflessivo, l’inconscio dinamico e l’inconscio non convalidato.
Seguendo quanto riportato in precedenza in merito allo sviluppo psicologico, le strutture preriflessive dell’esperienza si formano durante le interazioni tra il mondo soggettivo del bambino e quello del caregiver. I princìpi organizzativi del mondo soggettivo di una persona, sia che operino in modo positivo (dando origine a certe configurazioni sul piano cosciente), sia in modo negativo (ostacolando l’emergere di certe configurazioni), sono essi stessi inconsci.
L’inconscio preriflessivo fa riferimento all’attività di quei princìpi organizzatori dell’esperienza che agiscono al di fuori della consapevolezza dell’individuo. Le esperienze individuali vengono modellate dalle strutture psichiche senza che questo processo diventi oggetto di consapevolezza e riflessione e, pertanto, la struttura del mondo soggettivo è preriflessivamente inconscia. Questa forma di inconscio non è il prodotto di un’attività difensiva.
In assenza di riflessione, una persona è inconsapevole del proprio ruolo attivo nell’elaborare la propria realtà personale, e il mondo in cui vive e agisce si presenta come qualcosa di indipendentemente e oggettivamente reale.
La modellizzazione e la tematizzazione di specifici eventi che caratterizzano la sua realtà personale sono visti come se fossero proprietà di quegli eventi, piuttosto che prodotti delle sue interpretazioni e costruzioni soggettive. La terapia psicoanalitica può essere considerata una modalità attraverso cui un paziente acquisisce la coscienza riflessiva di tale attività strutturante inconscia.
Le riflessioni di Stolorow sull’inconscio dinamico iniziano con l’obiettivo di purificare tale nozione dagli appesantimenti metapsicologici freudiani, fornendo una spiegazione più vicina all’esperienza (dall’intrapsichico all’intersoggettivo). La rimozione, nella prima versione della prospettiva intersoggettiva (fenomenologia psicoanalitica), è considerata un processo attraverso cui particolari configurazioni di Sé e dell’altro non possono diventare coscienti in modo stabile. In considerazione di ciò, la rimozione è pertanto definita un principio organizzativo negativo che agisce accanto ai princìpi organizzativi positivi sottostanti alle configurazioni che si manifestano ripetutamente nell’esperienza conscia.
Dal punto di vista della fenomenologia psicoanalitica, l’inconscio dinamico rappresenta un set di configurazioni associato a conflitti emotivi e a pericoli soggettivi che la coscienza non può accettare. Alcuni ricordi, fantasie, sentimenti e altri contenuti dell’esperienza vengono rimossi perché minacciano di riattivare queste configurazioni.
Successivamente, gli autori mostrando come il conflitto psichico non sia determinato da pulsioni intrapsichiche, ma da stati affettivi del bambino che non possono essere integrati in quanto evocano una cattiva sintonizzazione da parte dei genitori, dimostrano anche che i fenomeni psicologici compresi nel concetto di inconscio dinamico derivano dalla regolazione reciproca dell’esperienza affettiva all’interno del sistema evolutivo.
Gli stati affettivi non integrati diventano la fonte del conflitto interno poiché sono vissuti come minacce sia alla organizzazione psicologica della persona sia al mantenimento dei legami di importanza vitale. Sono così messe in atto operazioni difensive di dissociazione degli affetti che cercano di proteggere la persona dalla ritraumatizzazione, e rappresentano la fonte principale di resistenza durante il trattamento psicoanalitico. L’inconscio dinamico non si origina da derivati pulsionali rimossi, ma dalla costruzione di una barriera difensiva che esclude stati affettivi centrali.
Gli autori sottolineano che il passaggio dalle pulsioni all’affettività, come base per la formazione dell’inconscio dinamico, non è solo un cambiamento di terminologia. La regolazione dell’esperienza affettiva non è il prodotto di meccanismi intrapsichici isolati, ma è una proprietà del sistema di influenza reciproca madre-bambino. Da questa prospettiva, diventa evidente che il confine tra conscio e inconscio è sempre il prodotto di uno specifico contesto intersoggettivo.
Dal punto di vista dello sviluppo psicologico, l’esperienza conscia del bambino si struttura attraverso le risposte convalidanti dell’ambiente e, nel caso in cui queste risposte vengano a mancare, possono dare origine a due forme di inconscio strettamente collegate tra loro: l’inconscio dinamico, in cui il bambino è cosciente del fatto che alcuni aspetti della sua esperienza sono sgraditi o recano danno a chi si prende cura di lui e quindi sacrifica interi settori del proprio mondo esperienziale per salvaguardare il legame, e l’inconscio non convalidato.
Questa terza forma di inconscio non ha origine da una qualche forma di rimozione, bensì dal fatto che alcune esperienze non hanno potuto essere espresse in quanto non hanno mai suscitato la necessaria risposta convalidante da parte dell’ambiente.
Il confine tra conscio e inconscio risulta fluido e in continuo cambiamento, in funzione delle risposte dell’ambiente alle aree di esperienza personale; tale concetto di fluidità contrasta nettamente con l’idea freudiana della rimozione come struttura psichica fissa che separa i contenuti consci da quelli inconsci (Freud, 1915-17, 1932).
Stolorow e Atwood, per agevolare la comprensione dell’interconnessione tra le tre forme di inconscio che si vengono a consolidare nel corso dello sviluppo, propongono un’analogia visiva specificando che non è loro intenzione introdurre un nuovo modello topografico della mente, completo di metafore spaziali reificate come invece risultano essere le topiche freudiane.
“Si immagini un edificio composto di numerosi piani e di uno scantinato. La coscienza corrisponde alle parti dell’edificio che si trovano sopra il livello del suolo; i piani più alti rappresentano le aree della consapevolezza nelle quali l’individuo ha raggiunto livelli più elevati di sviluppo e di integrazione. L’inconscio dinamico corrisponde allo scantinato, che è ricavato nel sottosuolo e resta celato alla vista. Qui si trovano i contenuti che, essendo associati a conflitti intollerabili e comportando un pericolo per il soggetto, sono esclusi dalla coscienza. In questa immagine l’inconscio preriflessivo non è rappresentato da alcun oggetto concreto; corrisponde piuttosto al progetto dell’architetto, che contiene il piano in base al quale l’edificio viene costruito. Un progetto si può concepire come un insieme di prìncipi organizzatori che specificano le relazioni tra le varie parti di un edificio: analogamente, le strutture preriflessive dell’esperienza non sono contenuti soggettivi specifici, ma sono princìpi che organizzano tali contenuti secondo schemi caratteristici. Nella nostra immagine l’inconscio non convalidato compare sotto forma di mattoni, legname da costruzione e altri materiali inutilizzati che sono stati lasciati sparsi qua e là nell’edificio e nello scantinato, materiali che non fanno parte della costruzione ma che avrebbero potuto farne parte. Questi vari oggetti rappresentano esperienze che non sono state articolate e integrate nella struttura della coscienza e che pertanto, fino a quando non ricevono un’eventuale convalida, restano prevalentemente inconsce”. (Stolorow e Atwood, 1992)
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